Diga di Montedoglio e diga del Chiascio – Fiori nel deserto
Ritenendo di operare una corretta informazione divulgativa sopra un concreto tema di attualità, pubblichiamo un articolo a firma dell’architetto Diego Zurli, ex Direttore Generale del nostro Ente. Il pezzo è apparso in prima battuta sul portale Umbria 24.it in data 25 giugno 2022 e sviluppa la tematica della scarsità della risorsa idrica e delle misure per contrastarla, attraverso uno scrupoloso excursus tecnico/storico, con un riguardo anche alla memoria di chi ha contribuito a realizzare le opere di accumulo e adduzione con lungimiranza e dedizione.
«Se la natura crea siccità, la scarsità è opera dell’uomo». Ad affermarlo è Guido Boccaletti, uno dei massimi esperti al mondo di sicurezza ambientale e di risorse naturali, l’autore di «Acqua, una biografia» uno dei saggi segnalato dall’Economist nella lista dei migliori libri del 2021. La tesi del libro è che l’acqua non è scarsa perché non c’è, ma perché è diventato difficile disporne quando e dove serve. Ma per avere l’acqua quando e dove serve, occorrono i «pensieri lunghi» della buona politica, quella che guarda alle future generazioni piuttosto che alle prossime elezioni. Le misure in emergenza possono al più limitare i danni e aiutarci a passare la nottata: tanto poi, con le prime piogge autunnali, il problema si risolve da solo, salvo riproporsi aggravato alla prossima crisi.
La siccità, purtroppo, non ha risparmiato l’Umbria che viene inclusa dall’Autorità di Distretto dell’Appennino Centrale tra le regioni che presenta la massima severità idrica. Ma il colore rosso che copre per intero la mappa del territorio regionale non rappresenta fino in fondo la situazione effettiva; in alcune aree la siccità non c’è o, se in parte c’è, la si può affrontare senza troppi grattacapi. Sono le aree servite dalla grande diga, dove l’acqua per gli acquedotti non scarseggia, l’agricoltura continua a irrigare, il fiume continua a scorrere, la gente fa il bagno nella Twt dove si pescano anche le trote e – incredibile ma vero – sono tornati i castori a fare il nido (per l’intraprendenza forse eccessiva di qualcuno che ce li ha portati chissà da dove). Oggi tutti si sentono abbastanza tranquilli a valle di Montedoglio; qualcuno, con comprensibile diffidenza ma senza giustificato motivo, si sente un po’ meno sicuro dopo la grande paura del 2010.
Ma per vederla realizzata non è stato per niente semplice. Quelli più in là con gli anni, ricorderanno le battaglie per impedirne la costruzione; al fondo, c’era un motivo difficilmente contestabile: sbarrare il Tevere ai confini dell’Umbria per portare l’acqua altrove, in Valdichiana. La leggenda narra che un vecchio comunista si alzò in piedi e disse: «Compagni, ora che abbiamo perso la battaglia contro la diga, vediamo di non perdere anche quella per l’acqua!»; così l’atteggiamento della Regione, piano piano, cambia: avevano ragione i democristiani che per quelle opere si erano battuti! Si realizzano gli impianti irrigui in anticipazione e poi tutto quello che è venuto dopo, l’uso idropotabile, la centrale idroelettrica che garantisce il minimo deflusso vitale, il contributo alla regolazione delle piene e tutto il resto.
L’Umbria ne intuisce per prima le grandi potenzialità e, insieme alla Toscana che nel frattempo ha realizzato a sua volta le reti irrigue e collegato gli acquedotti, si oppone con fermezza al ministro Calderoli che vuole sbaraccare tutto nel nome della semplificazione istituzionale. E poi le battaglie degli ambientalisti, le denunce partite da qualche esposto anonimo o da una foto sui social scattata con un telefonino dal primo che passa per ritrovarsi la guardia di finanza o la Forestale in cantiere, i problemi irrisolti del sistema dei grandi appalti nel nostro paese e infine gli incidenti che non dovrebbero mai accadere ma, talvolta, succedono. Il resto è cronaca.
La diga, in effetti, ha cambiato in modo assai rilevante l’ecosistema fluviale e il paesaggio (a giudizio di chi scrive, non necessariamente in peggio) ma, nel contempo, ha risolto problemi che, diversamente sarebbero stati irrisolvibili: l’approvvigionamento idropotabile in Umbria e in Toscana di numerosi Comuni tra cui Arezzo e Perugia, l’irrigabilità di quasi centomila ettari che hanno consentito la produzione di colture ad alto valore aggiunto e l’insediamento di grandi player nazionali come Aboca e Bonifiche Ferraresi, la difesa dalle piene, il mantenimento di condizioni di officiosità idraulica di parte dell’asta fluviale sottesa, la produzione di energia elettrica per oltre 10 milioni di Kwh. Ora il discorso si sposta sul Chiascio, che rappresenta la banca dell’acqua dell’Umbria per le prossime generazioni; ci sarà ancora molto lavoro da fare, ma sarà la replica di un film già visto.
«Quando bevi l’acqua dal pozzo ricordati sempre di chi l’ha scavato»: così recita un vecchio proverbio cinese. E allora il pensiero torna alla straordinaria lungimiranza della visione di Filippo Arredi – maestro di idraulica – che personalmente non ho mai conosciuto il quale, negli anni Sessanta, redige il Piano generale irriguo che, grazie al ministero dell’Agricoltura finanziatore, assegnò in concessione all’Ente una disponibilità per settanta anni di circa quattrocento milioni di metri cubi di acqua dal bacino del Tevere e dell’Arno da accumulare in un sistema di medi e grandi invasi. Ma i progetti di quelli non ancora realizzati, come il Carpina, il Singerna, lo Ierna, il Chiassaccia, il Rimucchie, ecc.: non sarà forse il caso di tirarli fuori dal cassetto dato che, vista la situazione, potrebbero tornarci molto utili?
E poi la memoria dei fondatori, di Fanfani e Bucciarelli Ducci e infine Carlo, Baldo, Mario, Franco, Patrizio, Manuela, Francesco, Alessandro e così via, i miei compagni di viaggio non più tra noi – sconosciuti a chi legge – che con il loro lavoro, nell’indifferenza e talvolta nell’ostilità, hanno reso possibile la realizzazione di opere che, finalmente, oggi tutti considerano indispensabili alla vita delle nostre comunità. Guido Boccaletti ha scritto che «la sfida della transizione ecologica non è quella di immaginarsi un paese senza nuove infrastrutture, ma è di integrare la funzione ecologica nelle infrastrutture strategiche». Ovvero, la transizione ecologica comincia da qui: dall’acqua e dal modo in cui sapremo convivere con essa ed impiegarla facendo tesoro della lezione di chi aveva visto lontano.
Diego Zurli